Suprema Corte sul reato di inquinamento ambientale

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Per la prima volta la Suprema Corte di Cassazione si trova a doversi confrontare con il nuovo reato di “Inquinamento ambientale” (art. 452 bis c.p.), introdotto dalla legge n. 68/2015.

La norma sanziona con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque, abusivamente, cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. Il secondo comma prevede un’aggravante quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.

La Suprema Corte ha precisato che ai fini della configurabilità del reato in questione “non rileva l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452-quater c.p..”

Il reato di inquinamento ambientale, pertanto, sussiste, anche se il danno all’ambiente, con le moderne tecnologie, possa essere rimosso.

La Corte, ha poi ulteriormente precisato come per ravvisare il reato in questione non sia sufficiente valutare solo alcuni e distinti parametri, ma sia necessario accertare che si sia verificato uno “squilibrio funzionale o strutturale” dell’ambiente in cui è stato commesso il fatto.



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